Perchè le rockstar muoiono giovani. Psicologia del Club 27

Perchè le rockstar muoiono giovani. Psicologia del Club 27

We want the world and we want it… now!
(The Doors, When the music’s over)

 

La leggenda del Club 27 è fatta di musicisti maledetti che hanno in comune una cosa: sono morti all’età di 27 anni, spesso in circostanze non del tutto chiarite.

Inizialmente il fenomeno venne chiamato dalla stampa musicale “Club J27” perché, oltre all’età del decesso, i membri di questo club avevano in comune anche un’altra cosa, cioè avevano una lettera “J” nelle iniziali del nome. Il primo fu Brian Jones, polistrumentista fondatore e membro della prima formazione dei Rolling Stones, morto a 27 anni il 3 luglio 1969 annegando in circostanze misteriose nella piscina della sua villa. Poi venne il turno di Jimi Hendrix, da molti considerato il miglior chitarrista di tutti i tempi, deceduto il 18 settembre del 1970 per soffocamento dopo avere assunto un mix di alcolici e tranquillanti. Dopo pochi giorni arrivò il terzo decesso, Janis Joplin, voce simbolo del blues maledetto, a seguito di un’overdose da eroina. Infine il 3 luglio 1971, a due anni esatti dalla scomparsa di Brian Jones, morì Jim Morrison, leader dei Doors e icona di una generazione, noto per i suoi eccessi che lo portarono alla morte così giovane, anche se le cause del decesso non vennero mai accertate perché non fu eseguita un’autopsia. Ufficialmente venne classificato come arresto cardiaco.

Oltre il Club J27

Qui si conclude la storia del Club J27. Almeno fino al 5 aprile 1994, quando venne ritrovato morto all’età di 27 anni Kurt Cobain, leader dei Nirvana, suicidatosi con un colpo di fucile e reduce da un tentato suicidio con un mix di Rohypnol e alcol. E poi arriva l’ora di Amy Winehouse, anche lei deceduta a 27 anni il 23 luglio 2011 dopo una serie interminabile di problemi legati all’abuso di alcol. In questi due ultimi casi illustri manca la lettera “J”, quindi la stampa musicale si è adattata parlando semplicemente della “maledizione del Club 27”.

Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison hanno incarnato la rivoluzione culturale avvenuta a cavallo tra gli anni 60 e 70, quella di Woodstock, della summer of love, del 68 e della sperimentazione psichedelica. Kurt Cobain e Amy Winehouse sono stati tra gli idoli della generazione che ha vissuto gli anni da teenager tra la fine del vecchio millennio e l’inizio del nuovo, a trent’anni di distanza dall’inizio della storia del Club J27.

Andando oltre la storia del club 27 possiamo ricordare numerosi altri casi di cronaca riguardanti rockstar decedute in età prematura, basti pensare ai recenti suicidi di Chris Cornell dei Soundgarden e Chester Bennington dei Linkin Park, oppure ad alcuni tra i più popolari musicisti pop dell’epoca recente, come Michael Jackson o Prince.

Alcuni studi hanno cercato di comprendere il fenomeno analizzando su larga scala gli elementi comuni della vita delle rockstar decedute. Il professor Mark Bellis, direttore del Centre of Public Health dell’università di Liverpool, ha pubblicato nel 2012 sul British Medical Journal i risultati di uno studio in cui il suo staff ha esaminato la vita di circa 1500 rockstar, collegando il rischio di morte prematura con esperienze avverse avute nell’infanzia e il livello di fama raggiunto durante la carriera artistica, il quale sarebbe a sua volta correlato con la maggiore esposizione a vari fattori di rischio durante la carriera, come l’abuso di sostanze stupefacenti.

Dianna Kenny, professoressa di Psicologia presso l’università di Sydney, ha pubblicato nel 2014 uno studio effettuato dal suo gruppo di ricerca in cui veniva analizzato un campione di oltre 12000 musicisti deceduti tra il 1950 e il 2014, evidenziando come la vita media delle rockstar sia di 25 anni inferiore ai parametri medi attuali della popolazione USA e come queste siano maggiormente esposte a morti accidentali in incidenti, suicidi e omicidi. Secondo Dianna Kenny l’età cruciale sarebbe 56 anni, invece di 27, infatti la maggiore percentuale di decessi tra rockstar si verificherebbe proprio a questa età. Lo studio mette inoltre in correlazione i generi musicali suonati con la tipologia di decesso, evidenziando come tra i musicisti punk sia più frequente la morte accidentale rispetto alla media della popolazione, così come per il genere metal risulta più frequente il suicidio, per il rap/hip hop la morte per omicidio, per il blues l’arresto cardiaco e per il jazz e il folk il cancro. La riflessione dell’autrice sottolinea quindi come queste tipologie di decesso prematuro siano in alcuni casi legate ai contenuti veicolati dalla musica stessa e dall’industria discografica o più in generale ad una vita di eccessi legati al mito del “vivi veloce, muori giovane” del “sesso, droga e rock&roll” di Ian Dury, “spero di morire prima di invecchiare” degli Who di My Generation o “vivere nella corsia veloce” degli Eagles.

Adattamento all’ambiente e vita veloce

Lo psicologo e ricercatore americano Scott Barry Kaufman riprende proprio il titolo della canzone degli Eagles “Life in the fast lane” per un articolo pubblicato su Psychology Today nel 2010 in cui analizza lo stile di vita “veloce” di alcuni artisti, attori, musicisti e anche certe sottoculture urbane. L’autore adotta un approccio multidisciplinare partendo dalla biologia dell’evoluzione umana e cita un lavoro di McArthur & Wilson (1967) in cui l’adattamento all’ambiente viene spiegato in termini di utilizzo di tutte le risorse fisiche e materiali da parte di un organismo per scopi riproduttivi e di sopravvivenza. Lo studio ipotizza l’esistenza di due strategie fondamentali di adattamento all’ambiente: il tipo K, usato da animali di grandi dimensioni come gli elefanti, che comporta una vita in ambienti più stabili e sicuri e porta a maggiori probabilità di sopravvivenza e longevità, mentre il tipo R viene usato dai piccoli animali e dagli insetti che vivono in ambienti meno controllabili o anche avversi, con un rischio di mortalità precoce maggiore. I tipi K e R sarebbero quindi i due estremi di un continuum in cui la strategia di sopravvivenza dell’uomo si collocherebbe nel mezzo in quanto il genere umano avrebbe sviluppato la capacità di usare un mix delle due strategie. Lo stile di vita di molti personaggi dello spettacolo, artisti e rockstar tenderebbe maggiormente all’utilizzo di strategie di tipo R a causa di una sovraesposizione a stimoli continui e potenzialmente dannosi, fattori che potrebbero portarli ad aumentare la quantità di rischio nelle proprie vite e quindi una probabilità maggiore di mortalità precoce.

Kurt Cobain e Amy Winehouse

Questo aspetto emerge in modo marcato in due documentari sulla vita di Kurt Cobain e Amy Winehouse usciti negli ultimi anni. “Montage of Heck” è un film-documentario del 2015 girato da Brett Morgen per documentare la vita del leader dei Nirvana e insieme ai “Diari” pubblicati in Italia nel 2002 da Mondadori costituisce una delle testimonianze più interessanti per ricostruire la vita privata di Kurt Cobain al di là della facciata pubblica da rockstar. Le testimonianze filmate dei famigliari, degli amici e dei compagni di strada di Cobain, infatti, insieme alle pagine dei suoi diari ci restituiscono l’immagine di una persona estremamente fragile ed ossessionata dai miti dell’adolescenza, senza esperienze famigliari nel mondo dello spettacolo e nata in un piccolo paese della west coast, che improvvisamente si trova ad essere leader di una delle più famose band rock della storia, con un’esposizione continua ai mass-media e ad uno stile di vita che non era in grado di gestire.

Sulle stesse righe si muove Asif Kapadia nel suo documentario “Amy”, sempre del 2015, in cui si racconta la vita di Amy Winehouse, per molti aspetti simile a quella di Kurt Cobain. Amy nasce nei sobborghi di Londra in una famiglia di origini modeste, cresce con uno spiccato talento per il canto e diventa cantante professionista a 16 anni, poi a 20 anni esce il suo primo disco con cui raggiunge il successo istantaneamente e da quando inizia la vita da rockstar si consumerà lentamente fino ad incontrare la morte a 27 anni. Lei stessa dichiarò durante un’intervista rilasciata nel 2007 alla rivista inglese Mirror: “A causa del lavoro che faccio e del settore in cui mi trovo ci sono molte probabilità di uscire ogni sera e distruggermi”.

Le variabili economiche e socio-culturali

Nel corso degli anni sono inoltre cambiate notevolmente le condizioni che permettevano agli artisti di raggiungere, mantenere e gestire il successo in rapporto all’industria discografica, alle relazioni con i fan e alla presenza mediatica. Da un punto di vista sociologico è cambiato notevolmente anche il concetto stesso di rockstar, termine nato negli anni sessanta per definire i personaggi che avevano rivoluzionato il modo di essere dei musicisti rock’n’roll raggiungendo una fama mondiale con l’introduzione dei primi imponenti tour anche su più continenti come Led Zeppelin, Rolling Stones e Black Sabbath. All’epoca le rockstar erano musicisti con un fortissimo culto dell’estetica nati da una cultura psichedelica che ha raggiunto l’apice con il festival di Woodstock, mentre i rapporti con il management e l’industria discografica erano molto diversi rispetti a quelli che conosciamo oggi. Negli ultimi decenni le cose sono gradualmente cambiate sotto il governo del mercato discografico e anche le rockstar si sono adeguate nella gestione della loro carriera e immagine pubblica, il risultato di questo processo di cambiamento ha portato ad una nuova figura di rockstar che oggi, oltre all’aspetto estetico/artistico, deve anche inglobare competenze in un marketing estremamente accelerato e competitivo e sapersi comportare come un direttore di una grande azienda in un mercato in crisi, quello musicale.

L’interrogativo che rimane aperto è quindi come saranno le rockstar della prossima generazione e quali fattori psicologici di rischio dovranno sapere fronteggiare per evitare di soccombere schiacciati dal proprio mito a soli 27 anni.

 

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