Depersonalizzazione e derealizzazione

Depersonalizzazione e derealizzazione

nebbia

Nel 2007 è uscito nelle sale cinematografiche il film “Numb” di Harris Goldberg, con Matthew Perry come protagonista. Il titolo del film è stato tradotto in italiano come “Il depresso innamorato” probabilmente perché, come è noto, un titolo che richiama il tema dell’amore avrà maggiore possibilità di fare buoni incassi rispetto a un titolo che richiama un disagio psicologico. La parola inglese “numb”, infatti, si traduce in italiano come insensibile, intorpidito e il titolo richiamava esplicitamente lo stato d’animo del protagonista Hudson Milbank (Matthew Perry), che nel film soffre di depersonalizzazione. È da segnalare che Matthew Perry ha sofferto realmente di depersonalizzazione nella sua vita reale, per questo la sua interpretazione risulta particolarmente efficace, anche se arricchita con particolari ironici per rendere più divertente la commedia.

I sintomi della depersonalizzazione

Il manuale DSM V classifica il disturbo di depersonalizzazione all’interno dei disturbi dissociativi, cioè episodi in cui si verificano  discontinuità di coscienza che possono riguardare anche emozioni, identità, percezione, rappresentazione del proprio corpo e altri aspetti della vita mentale. La depersonalizzazione si manifesta con la sensazione di irrealtà, di distaccamento, di essere un osservatore esterno dei propri pensieri, sensazioni, corpo e azioni. La depersonalizzazione ha un altro lato della medaglia, chiamata derealizzazione, in cui le sensazioni di irrealtà e di distaccamento non sono riferite alla propria persona, ma sono riferite al mondo esterno. Non sono due disturbi congiunti, cioè non necessariamente chi soffre di depersonalizzazione soffrirà anche di derealizzazione e viceversa ed è importante sottolineare che, secondo i criteri clinici, questi disturbi vengono diagnosticati solo se l’esame di realtà rimane intatto, cioè rimane integra la capacità di distinguere gli stimoli provenienti dal mondo esterno rispetto alle informazioni interne e non c’è confusione tra ciò che viene effettivamente percepito e ciò che ci si rappresenta mentalmente. Questo è uno spartiacque fondamentale perché i fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione possono essere presenti anche in persone che soffrono di disturbi più gravi, come la schizofrenia dove l’esame di realtà risulta compromesso.

Sembra che ci sia ancora una certa difficoltà a diagnosticare casi di depersonalizzazione/derealizzazione tout court in quanto queste problematiche si riscontrano spesso anche in persone che soffrono di altri disturbi più comuni come ansia e depressione. Alcuni autori stimano che il 50/70% della popolazione è soggetto nel corso della vita a episodi di depersonalizzazione o derealizzazione. Questo avviene principalmente in casi estremi e circoscritti, per esempio nei minuti che seguono immediatamente un forte trauma, un incidente o altre situazioni di pericolo. Se vi è mai capitato di essere coinvolti in un grave incidente automobilistico forse avrete fatto un’esperienza simile, negli istanti immediatamente seguenti e in situazione di estrema emergenza spesso si agisce come se ci fosse il pilota automatico e capita di percepire la realtà in modo distaccato e meccanico, oppure con uno strano senso di irrealtà, caratteristica che a volte resta impressa anche nei ricordi dell’evento. Tutto questo è normale, in una situazione di pericolo la nostra mente tende ad agire massimizzando l’efficienza a causa dell’emergenza e mette momentaneamente in standby altri meccanismi, come quelli emotivi, che potrebbero essere di intralcio nella gestione del pericolo. Si entra invece nella casistica del disturbo da depersonalizzazione/derealizzazione vero e proprio quando i sintomi persistono per un periodo prolungato e diventano cronici, in assenza di malattie o altri fattori che potrebbero giustificarne la presenza, come l’uso di droghe o farmaci. La durata del disturbo è estremamente variabile, ci sono persone che hanno sofferto di questo disturbo per pochi giorni, altre che ne hanno sofferto per diversi anni. La quasi totalità dei casi studiati ha in comune due caratteristiche: l’inizio del disturbo è improvviso e netto mentre la fine, cioè la remissione dei sintomi, è graduale e sfumata.

Se la maggior parte delle persone può avere uno o più episodi circoscritti di depersonalizzazione/derealizzazione nell’arco della propria vita, la stima di chi soffre del disturbo cronico è circa del 2% della popolazione, secondo studi recenti. Mauricio Sierra, direttore della Depersonalisation Research Unit presso il King’s College di Londra, stima che questo sia attualmente uno dei disturbi psicologici più diffusi, anche se spesso non diagnosticato oppure diagnosticato erroneamente sotto altre forme (ansia, depressione, ecc.). I motivi della difficoltà di diagnosi sono legati anche alle difficoltà che le persone affette da questi disturbi hanno nello spiegare i propri sintomi. È infatti ricorrente l’utilizzo di frasi come “mi sembra di vedere la mia vita in un film”, oppure “succede tutto in modo meccanico”, “agisco come un robot”, “il mondo intorno a me è piatto”, “mi sembra che il mio corpo non sia più il mio”, “mi sembra di vivere in una bolla” per descrivere dei fenomeni mentali oggettivamente difficili da descrivere, come succede anche a Matthew Perry nel film sopracitato. Inoltre spesso i sintomi psichici sono accompagnati da sintomi fisici vari, tra cui vertigini, sensazioni di pressione nel cranio, cefalee, fotofobia, iperacusia, ecc. come a volte succede anche a chi soffre di altri disturbi.

Come si innescano depersonalizzazione e derealizzazione?

Gli studi condotti finora hanno preso in esame una casistica abbastanza ampia, in cui sono stati compresi soggetti che hanno accusato questi disturbi dopo situazioni di stress emotivo, attacchi di panico, uso di sostanze (in particolare THC e MDMA) o farmaci. Molti studiosi sottolineano il ruolo importante della vita emotiva e delle esperienze traumatiche nell’innesco del disturbo. Fugen Neziroglu e Katharine Donnelly del Bio Behavioral Institute di Great Neck, New York, nel loro libro “Overcoming depersonalization disorder” spiegano il meccanismo in modo molto efficace: “In circostanze normali, se qualcuno ti colpisse in faccia resteresti scioccato o ti arrabbieresti; il tuo corpo entrerebbe nella modalità lotta o fuga, rendendoti vigile e ansioso. Adesso immagina che qualcuno ti colpisca in faccia ogni cinque minuti per il resto dell’anno. A un certo punto il tuo corpo smetterebbe di rispondere allo shock dell’impatto e tu ti abitueresti a questi terribili episodi; la mente e il corpo devono adattarsi”. Per molte persone il meccanismo è proprio questo, una sofferenza protratta porta la mente e il corpo a smettere di prestarvi attenzione, lasciando la mente intorpidita e anestetizzando il dolore, di conseguenza si perde sensibilità anche nel confronto di tutti gli altri stimoli esterni.

Come si curano depersonalizzazione e derealizzazione?

I percorsi psicologici che finora hanno dato i risultati migliori nei confronti di questi disturbi sono quelli derivati dalle terapie cognitivo-comportamentali, anche se riferendosi alle esperienze dirette dei pazienti ci sono numerosi casi in cui si riportano un alleviamento dei sintomi o una totale remissione anche seguendo percorsi psicologici di altri orientamenti. Nel caso delle terapie di stampo cognitivo-comportamentale sembra avere un ruolo importante l’utilizzo di strategie orientate all’accettazione (Acceptance and Commitment Therapy, Terapia dialettico-comportamentale, Mindfulness). In questi percorsi si privilegia l’utilizzo di strategie orientate ad aiutare le persone sofferenti a vivere la propria vita nel momento presente in linea con ciò che ritengono veramente importante per se stessi, superando le impellenze dettate dall’emotività, anziché assecondando le urgenze imposte dalla sofferenza.

In campo farmacologico non è stato trovato finora nessun trattamento che funzioni sempre con la depersonalizzazione, anche se nelle sperimentazioni farmacologiche è stato osservato un miglioramento lieve o moderato in parte dei soggetti coinvolti utilizzando farmaci di vario genere, principalmente riconducibili alla classe degli ansiolitici/antidepressivi.

 

 

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